E’necessario prevedere un regime di tassazione più severo per chi utilizza nuove risorse naturali. La proposta arriva dal Fai, Fondo Ambiente Italiano e dal Wwf Italia che nei giorni scorsi hanno presentato durante un’audizione in Senato, il dossier sul consumo del suolo «Terra Rubata». Il documento fotografa impietosamente la velocità sempre più sostenuta con cui in Italia si consuma il suolo. E’ la conseguenza di una urbanizzazione sempre più affamata di spazi che ha ridotto ai minimi termini il territorio non urbanizzato del Bel Paese: basti pensare che in Italia non è possibile tracciare un cerchio di raggio superiore ai 10 Km senza incontrare un agglomerato urbano. Nel dossier si rileva come parte rilevante di questa invasione, sia dovuta alle tasse sugli immobili. Quando infatti, entra in vigore la normativa sull’ICI (Imposta Comunalesugli Immobili), la pianificazione comunale non riesce più a trasmettere un quadro di certezze sul destino delle aeree urbane. I Comuni – rileva il rapporto a firma di Bernardino Romano, docente di Urbanistica della Facoltà di Ingegneria dell’Università dell’Aquila, premono per una rapida e massiccia conversione urbanistica ed edilizia del proprio territorio, così da incrementare le imposte sugli immobili. I nuovi strumenti di fiscalità comunale e le norme sul federalismo fiscale, non dovrebbero attenuare questo trend. “Continuando ad agganciare le entrate municipali alla quantità dei volumi edilizi – spiega il docente nel dossier – l’evoluzione del fenomeno non potrà invertire il passo. Del resto l’IMU, la nuova imposta municipale che da quest’anno dovrebbe sostituire i principali prelievi comunali e regionali, come ICI e addizionali Irpef, non sembra molto diversa nella sostanza dalle imposte precedenti, salvo che nelle modalità di riscossione”. Un quadro ancora più allarmante se si pensa che la maggioranza dei comuni delle regioni del sud non ha strumenti di pianificazione generale aggiornati dopo il 1995.
I processi che hanno portato in Italia ad un consumo elevato del suolo, sono comunque molteplici e stanno incidendo in termini di erosione diretta, particolarmente sugli agro-ecosistemi, ma minacciano anche un’altra grande quantità di ambienti naturali. A tutto ciò si uniscono effetti negativi sul consumo energetico e sui cambiamenti climatici a scala locale. Una ricerca ancora in corso dell’Università dell’Aquila in collaborazione con il WWF Italia, l’Università Bocconi e l’Osservatorio per la Biodiversità, sta monitorando quasi la metà della superficie del nostro Paese e rileva come le regioni studiate si attestavano negli anni del secondo dopoguerra su tassi molto contenuti della densità di urbanizzazione: ad esempio Sardegna, Molise, Abruzzo, Marche e Valle d’Aosta erano al di sotto del 7‰, le altre regioni erano posizionate su tassi compresi tra l’1 e il 2% e solamente il Friuli presentava un massimo del 4%. Tutti i valori crescono a dismisura nei 50 anni successivi: il Friuli e l’Emilia Romagna sfiorano il 10%, Umbria, Abruzzo, Molise e Sardegna si collocano intorno al 3%, mentre Puglia, Liguria e Lazio si attestano intorno al 6-7%. La variazione del dato pro capite vede primeggiare la Sardegna: da meno di 49 m2/ab passa dopo il 2000 a 10 volte di più, contro le due volte circa del Friuli, le circa cinque volte di Molise, Puglia, Emilia Romagna e Abruzzo, mentre i livelli più bassi si riscontrano in Umbria e Valle d’Aosta con fattori di incremento inferiori a 2. La densità di urbanizzazione si è quindi mediamente sestuplicata tra la metà del secolo scorso e i primi anni del 2000, mentre sono circa quadruplicati i valori pro capite delle aree convertite a funzioni urbane.
LA' DOVE C'ERA L'ERBA: LA GRANDE COLATA DI CEMENTO CHE HA CAMBIATO IL BEL PAESE
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