Anche quest’anno il 27 gennaio si è celebrato il “giorno della memoria”, nel ricordo e nella riflessione sulla Shoah. Inevitabilmente si è riparlato di Anne Frank e del suo diario. Ma un particolare è sfuggito a commentatori e studiosi, forse troppo presi da un dibattito ideologico: la presenza costan-te dei gatti nella vita della famiglia Frank. Da far presente a chi dice “Ci sono cose più importanti degli animali!”. Anne nel suo Diario parla spesso di gatti, per esempio, quasi all’inizio, scrive: “Moortje mi manca ogni mo-mento del giorno e nessuno sa quanto pensi a lei; ogni volta che ci penso mi vengono le lacrime agli occhi”. Moortje è la micia dei Frank, andata perduta nella fuga della famiglia dalla propria casa per evitare la cattura da parte dei nazisti. Miep Gies è la persona che aiutò Anne e la sua famiglia a nascondersi durante l’occupazione nazista in Olanda e poi conservò il Diario. Lei si rende conto dell’importanza dei gatti nel suo libro, Si chiamava Anne Frank, appena ripubblicato da Utet, www.utetlibri.it/ricerca/frank/ (la precedente edizione in italiano risaliva al 1991), è una specie di autobiografia, di sto-ria quotidiana nella tragedia della Storia. Qua e là in tutto il libro di Miep Gies compaiono i mici, non evidenziati, ma ineliminabili compagni di vita. Per esempio, quando Anne incontra Miep la prima cosa che le chiede è “Avete visto Moortje, la mia gatta?”. Ma Moortje, nonostante Miep l’abbia subito cercata, ben sapendo che Anna avrebbe immediatamente voluto sue notizie, è sparita.
Nel rifugio però arriva presto Mouschi, il gatto di Peter, figlio dei signori van Daan, coinquilini dei Frank che, in quella situazione di clandestinità, inevitabilmente portano con sé il gatto, perché fa parte integrante della fa-miglia, non è possibile non portarlo al rifugio, nell’appartamento segreto. Peter ha sedici anni, adesso verrebbe definito un ragazzino, ma a quei tempi era un giovane uomo, un po’ timido, un po’ introverso, e forse a cau-sa di queste caratteristiche della sua personalità si deve il grande attacca-mento al micio, atteggiamento considerato di solito femminile. Peter di-venterà poi il grande amico forse immaginario, il fantasticato amore, dell’adolescente Anne. Quando nel rifugio arriva un altro ospite, il dottor Dussel, si pone il problema della sua fobia verso i felini e della necessità di tenergli distante Mouschi. L’idea di allontanare il micio però non sfiora nessuno. Nemmeno quando l’appartamento si infesta di pulci e Anne commenta: “Avere un gatto non è solo un vantaggio”. Miep Gies, che non è ebrea e non è clandestina e dunque non vive nel rifugio, nel suo libro racconta, tra i tanti drammatici episodi di quel periodo, l’arrivo a casa sua di una donna ebrea: “Portava in braccio un gatto con un folto pelo e una cesta per gatti… il suo sguardo era pieno di paura. Mi resi subito conto della situazione. Era stata presa di tedeschi e le avevano dato pochi minuti per prepararsi. Allungai le mani verso il gatto e dissi: “Me lo dia”… “Si chiama Berry” disse e in pochi attimi sparì…Mi innamorai di lui istanta-neamente…Da allora Berry fu come un nostro bambino”. Anche nella si-tuazione più disperata, nei pochi minuti disponibili prima della deporta-zione, ci si pone il problema di salvare il gatto.
E ancora: Henk, il marito di Miep, a un certo punto diventa parte attiva della resistenza antinazista, anche se non lo dice esplicitamente, però parla ai rifugiati dell’appartamento segreto degli atti di sabotaggio effettuati con-tro gli oppressori, e lo fa tenendo Mouschi in braccio, dolcezza indispen-sabile nella durezza della vita. In varie scene raccontate da Miep, nel rifu-gio compaiono Mouschi e Moffie, che “assaporavano la serenità e l’intimi-tà di quel pomeriggio felice, raggomitolati l’uno accanto all’altro”. Nel Diario, Mouschi diventa anche il mediatore di una piccola lezione di edu-cazione sessuale che Peter fa a Anne, mostrandogli l’organo sessuale del gatto, che è stato castrato, “ovviamente da addormentato”. Stupisce che già in quegli anni, in Olanda, si usasse fare questa operazione ai gatti e in ane-stesia. Quando Moffie si sente poco bene, Miep, che può uscire, lo porta alla clinica veterinaria per cani e gatti, che dunque già erano in funzione! Successivamente, racconta Anne, Moffie sparisce: “Sicuramente sarà già da tempo nel paradiso dei gatti…Peter è molto triste”. La morte di un pet è molto triste anche sotto le bombe, anche nella guerra, anche durante il na-zismo.
Non si tratta di “animalismo”, concetto che era allora molto lontano dal comparire. Tutti sono carnivori, la frequentazione dei macellai è abitudine normale e mai messa minimamente in discussione. Ad un certo punto, nell’Olanda oppressa dai nazisti, arriva la grande fame, molta gente muore per questo, la disperazione dilaga. Miep si chiede: “Henk e il nostro gatto Berry sempre ad aspettarmi a casa, o io ad aspettare loro. Come far bastare due patate per due adulti e un gatto?”. Qui viene in mente la situazione ita-liana, quando invece, con la scusa della fame, nello stesso periodo si man-giavano i gatti. O la recente crisi del Venezuela, quando il presidente del paese ha consigliato ai suoi cittadini di mangiare il coniglio di casa. Per la famiglia Frank, come per altri ebrei ricordati da Miep, non è neanche pensabile mangiare il gatto, membro della famiglia. Come dice lo scrittore ebreo statunitense Jonathan Safran Foer nel libro Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda, 2010), proprio a proposito del valore mo-rale delle scelte alimentari, anche nelle situazioni più terribili, cibarsi, scegliere cosa, chi, mangiare o no, è una fondamentale questione etica perché, come disse sua nonna, rifiutando un pezzo di carne di maiale nonostante il rischio di morire di fame: “Se niente importa, non c’è niente da salvare”.
Editoriale
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