Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a un cambiamento radicale nel rapporto tra gli uomini e gli animali (in particolare quelli d’affezione), tanto negli orientamenti collettivi, quanto nella regolazione giuridica. E’ dunque sempre più evidente che, affinché i diritti degli animali siano riconosciuti, occorre che il convincimento etico che li sostiene sia condiviso dagli uomini in misura crescente.
Tuttavia, ancora oggi siamo a combattere un fenomeno chiamato randagismo. Una realtà disarmante, disastrosa e ignobile per un Paese quale il nostro, avanzato in tanti campi e considerato con un buon livello di civiltà.
La gravità della situazione è accentuata a dismisura soprattutto nel Sud Italia. I randagi sono tanti e se da un canto rappresentano per i funzionari pubblici un vero “problema”, dall’altro sono fonte di preoccupazione e sofferenza per le persone che ravvedono in questa condizione un’ingiusta penalizzazione.
Nonostante siano passati più di venti anni dall’entrata in vigore della legge 281/91, la situazione del randagismo in Italia è tutt’ altro che risolta.
Le Regioni del Sud lamentano mancanza di fondi, di strutture e di risorse, per questo i cani vengono lasciati liberi sul territorio. In realtà, alla base di questo problema, vi sono ragioni culturali e speculazioni sui fondi destinati al randagismo. In nessuna Regione esistono stime contabili che mettano in relazione i fondi ricevuti con l’andamento della popolazione canina. Non è un caso che siano state presentate interrogazioni parlamentari per chiedere certezza nei dati. Anche sui cani di proprietà, che non risultano regolarmente registrati nelle anagrafi.
La Legge 281 del 1991 stabilisce che sono le autorità locali, Comuni, sindaci e vigili urbani, i responsabili della gestione del randagismo sul territorio: la normativa però viene troppo spesso disattesa. Le leggi quindi ci sono ma non vengono rispettate, e non solo dai cittadini ma anche dagli organi istituzionali preposti, anzi, sembra che in certe aree italiane, specialmente al sud, i randagi costituiscano una risorsa di fondi.
In alcuni Comuni, dove i cani vengono lasciati moltiplicarsi, quando la situazione sfugge al controllo o succede qualcosa di eclatante, come aggressioni da branco, c’è un rimbalzo di responsabilità tra Sindaci, Prefetto e Procura per la mancata vigilanza e nello scarica barile generale si punta il dito sugli animali, con la totale mancanza di volontà a voler risolvere realmente il problema se non con ordinanze affama-randagi che vietano di sfamare oltre ai cani anche i gatti, o stragi di animali avvelenati per mano di cittadini che decidono di farsi giustizia da soli.
Stiamo certi che se i responsabili di abbandoni, maltrattamenti e uccisioni di animali fossero sanzionati come prevede la legge, nelle casse comunali entrerebbero anche quei fondi necessari per contrastare il randagismo che adesso gli enti locali lamentano di non poter sostenere.
Le domande che ci dovremmo porre sono tante e rivolte a tanti. Forse spesso sottovalutiamo la responsabilità delle associazioni di volontariato, che dovrebbero essere competenti non solo nel campo pratico-operativo, ma anche in quello amministrativo-legale e procedurale, in grado di relazionarsi con situazioni che richiedono determinati tipi di interventi. A questo proposito è necessario promuovere la figura di un “volontario” consapevole del suo ruolo sociale e culturale.
Dovrebbe esistere un filo unitario che ci lega ai diversi aspetti del problema, perché il valore della coerenza rafforza e dà credibilità alla propria testimonianza oltre a darle più persuasività, poiché la crescente consapevolezza che molti fenomeni sono interdipendenti e che producono delle ricadute, obbliga tutti quanti noi ad una maggiore e diversa responsabilità.
Quella del volontario è una figura centrale rispetto alle possibili soluzioni, a noi il compito di far comprendere a tutti gli organi di competenza quanto potrebbe essere prezioso un nostro contributo di esperienza pratica e di quotidiana convivenza con il problema, perché solo attraverso un apporto concreto il sistema può identificare e tutelare tutti gli animali, creando premesse affinché anche nei singoli comuni del Sud Italia, e non solo, si attivino iniziative sostanziali.
Gli amministratori comunali devono realizzare che certe scelte sono capaci di incidere positivamente sulla qualità e la civiltà di convivenza tra uomini e animali, ma soprattutto sui loro bilanci.
La realtà purtroppo impone le sue regole temporali e, in particolar modo dove è eccessivamente radicata una “certa cultura”, si rende necessario un lungo processo di rieducazione.
Non ci sfuggirà che in pochi anni siamo passati dalla deregulation assoluta e dalla cinica e spietata applicazione del DPR 320/54, ai percorsi dettati dalla 281/91 e dalle leggi regionali.
Nonostante siano stati raggiunti determinati obiettivi – che nessuno ci ha regalato ma sono frutto della nostra determinazione e della nostra fatica – emerge la necessità di intervenire su alcune realtà degradate, riscontrate per lo più, se non del tutto, nel meridione, che sono causa ed effetto di un “insana cultura”. E’ per questo che assistiamo ad abbandoni quotidiani da parte di proprietari incoscienti e ignoranti, con conseguenti sovraffollamenti dei canili e aumento di spese a carico della comunità.
Questa sorta di deregulation assoluta, voluta dagli enti stessi, aziona un meccanismo mafioso che gestisce il “mercato dei randagi” attraverso imprese chiuse e incontrollabili, un business per affaristi senza scrupoli. Per loro l’affare conviene se si lavora su numeri considerevoli e alcune delle condizioni prevalenti per assicurarsi l’appalto sono l’economicità del servizio e il ribasso a base d’asta. E in tutto questo i cani sono passati dalla pena di morte alla detenzione a vita.
Sino a che si faranno affari con il randagismo ci sarà sempre qualcuno che lavorerà per mantenerlo inalterato e/o incrementarlo. Ecco perché ogni intervento, per essere efficace, deve contenere la limitazione dell’affare facile, con alcune e semplici regole.
Senza dimenticare che è indispensabile mettere in campo ogni risorsa disponibile per un vero programma di sterilizzazioni, anagrafe canina, adozioni consapevoli, informazione e sensibilizzazione.
Per riuscire a elaborare una vera lotta al randagismo è necessario analizzare la situazione da diversi punti di vista, anche in considerazione di problematiche prettamente locali che, purtroppo, possono essere condizionanti. E’ profondamente sbagliato illudersi di risolvere il problema mettendo semplicemente a disposizione, genericamente e senza programmazione, fondi destinati alle ASL o ai Comuni senza precisi programmi legati tra loro e finalizzati a carattere regionale.