DRAGHI E LA NATURA CHE NON C’E’

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di Danilo Selvaggi*

Nelle 300 pagine del rapporto di Mario Draghi sul “Futuro della competitività europea”, che tocca una vasta serie di punti, di grande importanza, l’elemento “natura” è del tutto assente. La locuzione “risorse naturali” è usata due volte, la locuzione “ambiente sostenibile” appare una volta sola e la parola “biodiversità” manca del tutto.
Molto presente la parola “naturale” ma abbinata, venti volte su ventuno, alla parola “gas”.
In effetti, Draghi affronta la questione ambientale assumendola in sostanza come una preoccupazione energetica (in Europa l’energia costa troppo) e industriale (l’Europa non è competitiva e lo sarà sempre meno), concludendo con la necessità di correggere la transizione ecologica. Più precisamente, indicando tre strade da seguire per evitare che il progetto europeo finisca male:
1) crescita economica,
2) innovazione tecnologica,
3) revisione dei tempi della transizione, oggi troppo rapidi.
In linea di massima, il futuro dell’Europa, secondo Mario Draghi, passa da qui.
Ora, è un atteggiamento spesso autoreferenziale e direi stucchevole quello di leggere i documenti e concludere che manca la parte che più interessa a noi, ad esempio la biodiversità. Il mandato avuto da Draghi, peraltro, era di ragionare sulla competitività delle nostre economie e non sulla consistenza della gallina prataiola o sulla crisi delle praterie marine. Questo Draghi ha fatto, con un lavoro mastodontico e certamente, sotto vari aspetti, di qualità.
E però dobbiamo chiederci: nel ventunesimo secolo, alla luce delle conoscenze maturate, è possibile bucare completamente l’argomento “natura”? È saggio, lungimirante? Davvero il ragionamento sul futuro dell’Europa non merita un cenno a ciò che vive intorno a noi e da cui dipendiamo totalmente? Si può essere davvero competitivi se non si è comprensivi, nel doppio senso di capire la realtà con cui conviviamo e di com-prenderla, prenderla con noi, farci i conti?
Le nostre teorie sono, molto spesso, teorie grigie. Teorie povere, prive o carenti di natura, e il problema non si limita certo al rapporto di Mario Draghi. Basti, come esempio, prestare un po’ di attenzione alle analisi geopolitiche (altrimenti di grande interesse) di cui sono pieni i nostri tempi, i festival, le riviste, i dibattiti, per rendersi conto che, per questo genere di cultura, che pure si occupa di “geo”, la natura è un fantasma. È invisibile. C’è ma non c’è. Non esiste del tutto.
La natura ha una natura fantasmatica.
Cosa sono le specie viventi? Dove sono? Cosa sono gli habitat naturali? Cosa sono i boschi, i fiumi, le coste, le dune, le api, i prati fioriti, le farfalle, i rondoni, il mare? Cosa rappresentano? Solo problemi? Solo risorse? Solo contenziosi balneari? Nessuna soggettività, nessuna autonomia esistenziale? Non merita, la natura, anche se letta esclusivamente sotto la veste di risorsa, un momento di riflessione seria su ciò che può comportare per il nostro domani?
E ancora, nulla contano le analisi dell’Ipbes secondo cui abbiamo antropizzato il 70% del pianeta e messo a rischio un milione di specie? Nulla contano le riflessioni sui “valori della natura” tra cui il valore della prosperità autonoma: il diritto di un pesce di prosperare nel proprio habitat, in quanto vivente del pianeta, a prescindere dal nostro utile? Che genere di relazione dobbiamo intessere con quel pesce? Di competitività? Di sfruttamento? Sempre e solo di sfruttamento? Di riconoscimento? Di ignoranza? Un pesce-fantasma?
Aggiungo, tornando al tema della geopolitica, che se molte delle analisi geopolitiche sono “valutative”, nel senso di esprimere giudizi di valore sui fenomeni geopolitici come rapporti di forza (“È giusto che A domini B solo perché più forte?”), non sarebbe il caso di applicare lo stesso metro a una geopolitica del vivente? È giusto che l’umanità domini ogni altra specie solo perché più forte? Se sì, quanto è rischiosa questa teoria, in un domani in cui qualcuno dovesse essere più forte di noi?
Tuttavia, prima ancora che politica, la questione implicata dalle teorie grigie è di tipo cognitivo ed anzi psicologico. Un deficit di percezione e pensiero che è ancora lontano dall’essere colmato, nonostante l’avanzamento normativo, scientifico e culturale di questi decenni. Un deficit che significa molte cose, anche profonde. Un deficit che non va sottovalutato e può costarci caro, forse non meno di quanto ci costa la crisi di competitività e la sfida contro la Cina. Ci sono tanti tipi di crisi, con tempi, nomi e modi diversi, e tutti richiedono attenzione.
L’Europa, che Mario Draghi conosce così bene ed ha contribuito a salvare (per fortuna!) ha un’origine fortemente ecologica. Già dagli anni Sessanta si pose il problema della protezione ambientale e dagli anni Settanta cominciò a produrre atti, regolamenti, direttive finalizzati a conservare la biodiversità, arrivando ai giorni nostri ad approvare la Nature Restoration Law, a chiedere di riportare la natura nella vita dei cittadini, a rivendicare una leadership mondiale nella conservazione della diversità biologica.
Poi c’è l’altra Europa. L’Europa – perdonate la semplificazione brutale – delle teorie grigie. Le teorie in cui la natura non c’è. Anzi, c’è ma non c’è. È uno spettro.
La grande sfida della competitività, e dunque del futuro dell’Europa e dell’immane impresa della transizione ecologica, passa dall’unificare queste due Europe. Congiungere ciò che non può essere diviso – le economie particolari umane e l’economia generale del vivente – e in questo senso arricchire di valori l’esistenza dei cittadini europei, un po’ depressi, che hanno bisogno di lavoro, denaro, sicurezze ma anche di sentirsi parte di una storia comune più grande.
Sarebbe utile che il lavoro sulla tanto citata innovazione si concentrasse su questo. Innovazione come stimolo del pensiero, come pensiero fuori dal solito. Innovazione come pensiero che affronta i problemi con una mentalità diversa da quella che li ha creati.
La vera innovazione consiste anzitutto nell’innovare il concetto di innovazione. Liberarla dal destino di essere solo crescita e tecnologia. È la precondizione. Altrimenti, fra qualche anno ci ritroveremo con un nuovo rapporto di 300 pagine e la crisi economica che avanza e l’Europa ancora più in bilico e la gente ancora più depressa e le teorie ancora più grigie e la natura ancora più invisibile, ancora più fantasma.
^Direttore generale Lipu-Birdlife Europe

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